Giulio Morra


Giulio Morra è nato 43 anni fa e fotografa da venti a livello professionale collaborando con riviste, agenzie e giornali nazionali. Ha fornito immagini fotografiche a numerose monografie, fra le quali collane edite dal Premio Grinzane Cavour.
Da alcuni suoi lavori sono state tratte pubblicazioni quali: 1995 - "Se ne va il tempo come l'ombra - meridiane in provincia di Asti", 1995 - "Storie d'acqua", 1997 - "Fantastica, Comune di Asti"
1999 - "Asti contemporanea".
Numerose sono le sue mostre personali:
1985 - "Voyage autour de ma chambre"
1988 - "Cartoline Siciliane"
1989 - "Daunia" 1993 - "Atlante sentimentale"
1995 - "Storie d'acqua" 1997 - "Fantastica".
Ha inoltre esposto a Firenze presso la Stanza di Donatello, a Roma presso il Museo della Cultura e delle Tradizioni Popolari dell'EUR ed a Torino Esposizioni.
"Ho fotografato queste testimonianze di architettura rurale per bellezza. Sono abituato, come professionista della immagine fotografica, a corteggiare l'oggetto dei miei scatti, a carpirli, a rubarne l'attimo più propizio. Invece, con queste minuscole case dimesse e solitarie, poste a metà collina, al fianco di sentieri irti di filari o abbandonate fra prati e sterpaglie, sono stato guidato in una progressiva e talvolta malinconica scoperta. Il lavoro mi ha richiesto - ma sarebbe meglio dire "mi ha concesso" - un dettagliatissimo esame del territorio, la percorrenza accanita e puntuale di vallate e colline, la scoperta di angoli inediti e sorprendenti. Ho seguito, per questo itinerario, il filo delle stagioni ed il giro del sole: il risultato è questo diario di ricerca percorso, come è mia abitudine, da un minimo corredo di attrezzatura ma con tanta curiosità, sincerità e partecipazione".
Giulio Morra

Il viaggio, altrove....


Ci sono luoghi, nella mente e nel cuore, che richiedono viaggi di emozione e di ricordi per essere incisi nell'atlante del sentimento. Mare, monti, o colline di langa sono quel che sono in apparenza, sempre e comunque, con il loro solo esistere. Ricreano quasi a comando nella memoria il silenzio pieno di vacuità di conchiglie vuote, il profumo di grilli, di stelle marine essiccate, di acqua di montagna o di fieno, eppoi tacciono. Il viaggio, se c'è stato, è dimenticato. Il posto, dov'è, è come tanti. Ci sono invece altri luoghi, altri viaggi, che vestono i ricordi e coi ricordi le persone e le cose che hanno portato dentro di sé e con sé. Così il mare, per chi viaggi col sentimento non delle rotaie, o degli orari, o degli ombrelloni, diventa quel mare, quel tramonto ostinato a morire, quell'incontro improbabile. Certo il procedimento mentale è difficile : richiede tempo, che cancelli l'eccesso di luce o di mistero ; richiede silenzio, che zittisca per sempre l'eco portentosa dei passi attesi, del canto delle onde. Richiede una compassione rigorosa, per farlo tornare ad essere quello che è, senza i fronzoli addolciti della malinconia. Questo capita talvolta nella mente, e succede che il paesaggio si scomponga fino a diventare universale : è pietà per il cuore, allora, che i ricordi si attenuino, che le impressioni si decantino, che quel posto diventi un posto fra i tanti, incontrati, cercati, fotografati. Anche se ne risulta sconfitto il ricordare. E allora uno, se lo svanire della memoria fa male, se lo ricostruisce quel posto, quel luogo, quel viaggio. Sostituisce la chimica delle emozioni con la chimica di laboratorio. Veste di muffa tenace una pellicola, come di muffa si ricoprono i ricordi mal coltivati, e ne ha in cambio sortilegi e magie e zingaraggi che forse, soli, possono restituire al cuore quelle coordinate uniche e precise che connotarono, là e altrove, quel viaggio. Dette così, le cose, non c'è da stupirsi se in questa mostra fotografica, fatta rubando al tempo testimone della cronaca il tempo più incantato della non storia, i paesaggi sono qui ed altrove, se i luoghi sono privati ed universali, se lo sgretolarsi o il cangiare chimico di un colore fanno ricordare, a chi guarda, lo sgretolarsi intimo di un'amicizia, di un amore o di una illusione. Ci sono delle venezie, qui, che tutti abbiamo visto o meglio, che tutti avremmo voluto conoscere : non gondole lucide di lacca sotto il sole, non nastri rosso cardinale posti a corona su cappelli da souvenirs, non piccioni ammaestrati, non ponti candidi come merletti su lagune incantate. E' una Venezia muta e diversa, che lamenta nella dissolvenza il suo divenire fantasma. Oppure brillano navi, e litorali, e scogliere e spiagge con case colorate, ma non è Varigotti con la prua di una barca chiamata Elsa, non è Ponza con i suoi colori da galeotta del mare, non è il borgo saraceno da raccontare in cartolina, ma quel paesino di mare dove tutti, almeno una volta, non siamo riusciti a far volare gli aquiloni. E c'è gente che viene inghiottita dalle pareti, dalle piazze, dai muri, perché in alcuni ricordi non c'è più posto per le persone. Siamo noi, con i nostri spiccioli di testarda speranza stretti in pugno, e le nostre tasche bucate, a lasciarci scomparire. Siamo noi corpi diventati carne di argilla quelli che si rotolano nella acque di zolfo bollente di Saturnia, quei noi che allora, in quell'altrove data del viaggio, accecati dal bello del luogo, non riuscimmo a raccontare la nostra nudità felice bagnata e calda ed immediata. La fotografia ci pareggia il conto adesso, con le sue alchimie di reazioni chimiche che ce ne danno l'esatta ricostruzione, il qui ed ora di un altrove allora solo incontrato, mal conosciuto.

Laura Bosia

I Casot

I "Casot" ovvero le casette per il ricovero degli attrezzi agricoli, rappresentano per il Monferrato un elemento inscindibile dal paesaggio, dallo stile architettonico e dalla vita sociale. I "Casot" rappresentano la testimonianza di una agricoltura faticosa, dura e povera, quando le macchine e le tecnologie non erano ancora a disposizione della gente dei campi. Quando gli attrezzi erano pochi, essenziali e rudimentali. Eppure, ai tempi, i "Casot" erano una comodità in quanto permettevano un riparo ed una sosta direttamente presso il campo di lavoro. Rappresentavano anche una necessità permettendo di sorvegliare le colture agricole nel periodo della raccolta. Oggi riscopriamo i "Casot" celebrando anche la conquista di una dignità: vi erano tempi in cui dentro al "Casot" si mangiava e si dormiva. Queste strutture, infatti, rappresentavano l'avamposto della cascina. Realizzati a regola d'arte, con una porta robusta, una finestra, un tetto sicuro ed un camino, i "Casot" erano strutture essenziali ma funzionali e discrete e, soprattutto, a supporto della vigna o del campo con le colture più pregiate. Ancora oggi molti "Casot" sono in buone condizioni e piacevolmente inseriti nel territorio, altri, invece, non sono che ruderi ma in entrambi i casi costituiscono il simbolo e la testimonianza di tempi ed esistenze trascorse. Ricordandoci indiscutibilmente le tribolazioni di un tempo ma anche l'entusiasmo della fatica condivisa a stretto contatto con tante care persone ed un differente tipo di rapporto con la natura, più coinvolgente, vissuto tra gioie e lacerazioni.
"Scapa Giancarlo, scapa: va'n ter casot!" gridava la madre al bimbo che giocava tra i filari della vigna mentre si avvicinava il temporale. "Prega, Giancarlo, prega!" implorava la madre al primo tintinnio dei chicchi di grandine sui coppi del casot...